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Demoliti & demiurghi

di don Renzo Beghini

Editoriale di Verona Fedele del 26 febbraio 2023

L’ affluenza alle recenti elezioni regionali è stata del 41,67% in Lombardia e del 37% nel Lazio. In termini assoluti ciò significa che i due governatori hanno un consenso che si basa sul 15%, o al massimo il 20% degli elettori. Sì certo, chi prende più voti, vince. Ma si può governare con un consenso così ristretto? Su quale autorevolezza e su quale rappresentatività può contare chi ha il sostegno di appena un cittadino su cinque? Il punto non è la legittimità formale, ma quella politica e sostanziale. «Che cosa faremo quando si recheranno alle urne solo i candidati?» si è chiesto il prof. Massimo Cacciari in un’intervista su La Stampa.
Gli fanno eco i Vescovi italiani nel proporre, come tema di studio per la prossima Settimana Sociale
dei cattolici in Italia che si svolgerà a Trieste nel luglio del prossimo anno, il tema della crisi della democrazia. Preoccupati dalla frammentazione sociale e dall’individualismo crescente, sottolineano la necessità di favorire una riflessione sulle nuove forme di partecipazione. Di fronte ai nodi importanti che il Paese è chiamato ad affrontare – tra cui la promozione di un lavoro degno, la riduzione delle diseguaglianze, la custodia dell’ambiente – servono ascolto attivo, protagonismo comunitario e responsabilità. Secondo i Vescovi, il futuro dell’Italia richiede persone che si mettano in gioco con la capacità di vivere il potere come un servizio da condividere.
Eppure i dati di Eurobarometro in una recente ricerca sui giovani europei (età 16-30 anni), rivelano che almeno 9 su 10 si interessano e discutono di politica con amici e parenti. Molti hanno preso parte ad attività politiche e movimenti di protesta. Quelli che non manifestano alcun interesse per la politica sono appena il 10%. E il dato italiano coincide con la media europea. Chattare di politica, postare messaggi, lanciare o contribuire a blogs, sembra essere la forma di partecipazione prediletta dei giovani europei. Ad essere in crisi dunque non è la partecipazione politica ma la sua forma ‘istituzionale’, rappresentativa, quella che in passato era addirittura obbligatoria: il voto.
Ma al di là degli strumenti di comunicazione e di partecipazione, l’astensione dice che siamo di fronte ad una crisi della politica per ‘abbandono’ dei cittadini. Considerare la democrazia solo come una procedura attraverso la quale eleggere i propri portatori di interesse, la tentazione di fare a meno delle mediazioni così da consentire un contatto diretto con il decisore politico, l’idea per cui la politica non serve a nulla e ci vuole il ‘commissario’ per gestire e risolvere le crisi, sono alla radice del problema. La sua espressione più concreta è il cortocircuito della sciagurata politica dei bonus. È troppo facile promettere superbonus (pagati indirettamente da tutti) per gli interessi privati e poi lamentarsi e criticare quando vengono ritirati perché ne va del bene collettivo. Ciò rivela per un lato un problema di visione e di proposta politica, e per l’altro di capacità di aggregare e di raccogliere consenso.
Due osservazioni. La democrazia, ancor prima di essere un sistema di garanzie e procedure formali per la partecipazione di tutti, è soprattutto la costruzione mai perfettamente compiuta di uno spazio pubblico comune: ovvero, di un perimetro descritto da pratiche – anche informali – che aprono progressivamente ogni persona verso gli altri.
Ciò presuppone un’espansione di fraternità nella vita quotidiana delle organizzazioni e delle istituzioni. Parliamo di luoghi vitali concreti e aperti dove apprendere in modo permanente e non episodico le pratiche generative della democrazia: ascolto, dialogo, discussione, argomentazione,
elaborazione, valutazione, scelta. Luoghi dove elaborare tutti insieme uno stile fraterno che si traduca in una politica capace di far respirare il futuro alle persone e alle comunità. Ciò che sta già avvenendo su diversi temi di comune interesse: pensiamo alle comunità energetiche, alla cooperazione sociale o al recupero del patrimonio culturale.
In secondo luogo Giuseppe De Rita, in una recente intervista su Avvenire, dice che i cattolici sono capaci di grande aggregazione sul versante della coesione sociale, ma la politica è un’altra cosa. È ricerca del consenso, ha un suo linguaggio da acquisire, richiede tempo e volontà di sporcarsi le mani. Per fare politica bisogna sapersi inserire nelle rivalità, più che nella coesione. Saper dialogare con il mercato sdrucciolevole delle opinioni. E non sempre i cattolici sono attrezzati e preparati a questo. L’impegno politico richiede tempo e fatica mentre troppo spesso si vede in giro solo impazienza e ambizione personale. Non è sufficiente dire: «Eccomi, sono qua!». De Rita chiude sottolineando che i progetti politici che hanno avuto successo sono quelli preparati da una squadra, da un gruppo di lavoro che ha saputo attendere, intercettare bisogni e interessi veri, e interagire nel variegato mondo delle opinioni.
Insomma, demoliti da un lato e demiurghi dall’altro, anche in questa fase storica, e ancora una volta, sono i cattolici quelli chiamati a mettere insieme i pezzi e a trovare una via di uscita.
Faticando, al solito, il doppio degli altri.

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