Dai “tetti” di Legnago a quelli della prossima legge di stabilità!
Metti oltre trecento persone in una sala di un tardo pomeriggio di un centro del Veneto dove a quelle ore si lavora ancora per un bel po’, e ti chiedi: possibile?
Lo è stato a Legnago (VR), al convegno promosso principalmente dall’Agenda “Ditelo sui tetti” e dalla Fondazione Toniolo lo scorso 23 novembre 2022, sul tema: PER LA VITA, NEL “FINE” DELLA VITA, organizzato grazie alla straordinaria dedizione di Elena Rossini, Carlo Adami, Diego Marchiori, Mattia Fusina, Giulia Bovassi, Paola Zuliani e dei loro amici veronesi.
L’originalità della formula, che la nostra Agenda ha portato in giro in tante regioni italiane nei mesi scorsi, è stata subito colta nel saluto del Sindaco, Graziano Lorenzetti, che si è detto molto affascinato dal vedere attorno a uno stesso tavolo esponenti della Chiesa, del mondo scientifico e delle associazioni.
Molto graditi i saluti del Ministro della Salute, Orazio Schillaci (leggi qui) e del Presidente del Consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti, che hanno introdotto nel merito i lavori. In particolare, il Ministro ha parlato della relazione fra medico e malato come un “incontro”, che mai può accettare la prospettiva di “un disumano abbandono del malato”, perciò assicurando “la necessaria attenzione a tutte le attività e iniziative a sostegno del diritto al benessere e alla dignità della persona, anche nella fase terminale della esistenza di milioni di italiani”.
Ha avuto allora buon gioco l’ottimo moderatore, Carlo Adami, a chiedere di fissare il livello della discussione a Mons. Renzo Beghini, della Fondazione Toniolo, che ha subito proposto il metodo: “Vorremmo appoggiarci sulla ragione, dunque far dialogare la medicina e la scienza con l’antropologia e la fede, a partire da un grande rispetto per le persone che sono coinvolte. Vogliamo, cioè, lasciarci mettere in discussione dall’esperienza. Perché davanti al «fine» della vita le scorciatoie non sono possibili, come quella di far passare per un atto di carità l’accompagnare qualcuno al suicidio assistito. C’è poco da fare -concludeva il Presidente della Fondazione scaligera- nel modo con cui ci prendiamo cura di chi sta attraversando la fine della vita, dimostriamo il nostro grado di civiltà”.
Su inutili scorciatoie della ragione si è soffermato Mons. Gianni Fusco, docente LUMSA e assistente spirituale di UCID giovani e dell’’Agenda “Sui tetti”, che ha proposto una rapida carrellata di autori, fra cui Goethe e Nietzsche, per i quali “i fondamenti della nostra esistenza non sono nella trascendenza bensì immanenti alla realtà che misuriamo, ma questa ipotesi non regge specie davanti alla fine della vita, quando il nostro essere persona ci apre a una prospettiva che non è confinabile alla dimensione materiale. La scienza, perciò, non può essere l’unica agenzia capace di decidere, in quanto il limite è una condizione essenziale al nostro essere e di fronte ad esso si pone e si propone il tema del senso dell’esistenza. Se, invece, evitiamo questa domanda e pensiamo di essere solo «quello che sento» anziché «quello che sono» cadiamo in una non-antropologia e finiamo per negare valore e significato alla vita!”.
Raccoglieva il testimone, Mons. Andrea Manto, della fondazione Ut Vitam Habeant, che incoraggiava ad “avere il coraggio di mettere al centro la parola «morte», che è un tabù per la cultura contemporanea. Ma non possiamo pensare di essere sufficienti a noi stessi”, richiamando (chi se lo sarebbe aspettato da un prete!) la postura umana indicata da Seneca, quando “diceva che la vita è un’ ars moriendi ovvero è la capacità di cercare un senso ogni giorno al nostro vivere. Invece, di fronte al nostro non voler invecchiare e al nostro non voler morire, la cultura dominante ci propone solo di cancellare i segni della vecchiaia e della morte”. Ma é’ una strada sbagliata, perché l’esperienza ci offre piuttosto un’altra evidenza e cioè, continuava il teologo, che “vivere fino alla fine vuole anche dire che un istante può valere tutta la vita. Questo accade spesso nell’ ultima parte del nostro viviere. La morte è il punto di sintesi di un’esistenza e bisogna animare la speranza alla vita piena e senza fine. Posso allora decidere io quando staccare la spina? Che libertà è questa?”. Di qui, il passo concreto: “Per mantenere la vita c’è bisogno di cura. E la cura ha bisogna di qualcuno che si prenda cura, è una relazione. Il punto vero, allora, è il contrasto alle solitudini. Perché laddove aumentano la solitudine e l’abbandono, aumenta anche la richiesta di eutanasia”, cosicché “per avere cura della vita abbiamo bisogno di formazione dei medici alle cure palliative e di una generazione di persone che sappiano aiutare chi è solo, che sappiano costruire reti di prossimità”.
Nell seconda parte dell’incontro, è toccato ai medici, ma lo spartito esistenziale e di ragioni non è affatto stato diverso.
Michele Milella, direttore di Oncologia all’Azienda Ospedaliera di Verona, da scienziato ha premesso che “Il tema del fine vita è profondamente umano, molto poco scientifico”, così riprendendo quel passaggio di Mons Fusco per cui la scienza non può essere l’unica e ultima agenzia di giudizio sul vivere. “Come oncologo -proseguiva il primario veronese- quasi mai mi è capitato di vedere chiedere la morte. Il problema è un falso problema. Il problema dell’eventuale richiesta della morte è in realtà di porre fine alla sofferenza. E questo significa che forse siamo noi a non essere in grado di alleviare la sofferenza”. Di qui la ragionevolezza di sostenere le cure palliative e la relativa nuova “scuola di specialità, anche se -precisava il primario veronese- quella della fattiva vicinanza a chi soffre è una competenza che appartiene tout court all’essere medico”. Poi, l’insigne oncologo non a caso ha deciso di scambiare posizione con i teologi … “La parola «fine» -osservava- significa anche «scopo» e questo è l’aspetto più interessante. Di qui capiamo come accelerare la fine della vita o praticare l’accanimento terapeutico per allontanarla sono due aspetti di uno stesso nostro affanno, che rivela come non sappiamo accogliere un evento come la morte, cosicché il nostro intervento in un senso o in un altro diviene presunzione. Piuttosto, è il tenere la mano all’ammalato e accompagnarlo alla sua fine è il vero salto di qualità!”.
A testimoniare questo “salto di qualità” ci ha pensato subito il relatore successivo, Roberto Salvia, direttore del Master in cure palliative a Verona, che ha raccontato la sua storia personale, quando la madre si è incamminata verso la fine. “Allora cominciai a stare di più con lei”, raccontava, dando una testimonianza personale di quanto avesse visto giusto Mons. Manto nel dirci che gli ultimi istanti della vita la custodiscono tutta. “Così, mia mamma morì, ma in compagnia non in solitudine. Abbiamo avuto modo di parlarci. Non posso dire che sia stato bello, ma è stato un «saluto» che io mi porto nel cuore”. “In questo modo -continuava- ho conosciuto la grande funzione che possono avere le cure palliative e per questo ho pensato al master di cui ora sono il direttore. E ci tengo a precisare che abbiamo voluto un master di primo livello, perché possano partecipare medici, infermieri, psicologici, riproducendo cioé l’equipe delle cure palliative e di tutto quello che ruota attorno al paziente. Infatti, il nostro slogan è la centralità del paziente nella cura, perché anche quando non si può guarire, si può sempre curare. E sempre con uno sguardo di umiltà verso la sofferenza, sguardo di cui evidentemente qualcuno si sta accorgendo, se ci siamo trovati ad avere il doppio delle richieste che attendavamo”.
Sulla scia dei suoi colleghi, Andrea Bonetti, direttore di oncologia all’ospedale di Legnago, ha potuto con schiettezza raccontare che “il rapporto medico paziente è fantastico e difficile al tempo stesso. Perché occorre assicurare sempre una vicinanza senza paternalismo. E possiamo dire, a riprova di una vocazione alla relazione, che a volte è davvero inevitabile diventare amici dei nostri pazienti. Con questo spirito abbiamo lavorato per l’hospice San Giuseppe di Marzana nel veronese, dove sempre più abbiamo legato le pratiche mediche con ogni altro tipo di esigenza per la persona, compreso il conforto religioso. E per questo sarebbe più giusto parlare non di cure palliative, bensì di cure confortevoli!”.
Di fronte a un tanto vivace dialogo di teologi e medici che stavano di fronte al tema della sofferenza e della morte, Domenico Menorello dell’Agenda “sui tetti” ha posto brutalmente una domanda: “Perché si chiede una legge sul-LA fine della vita, che diventa un’attesa suL «fine» della stessa? Una legge può dire il valore del vivere? Per cercare il senso dell’esistenza non bastano forse le dimensioni esistenziali e mediche su cui si sono soffermati oggi gli splendidi interventi ascoltati?”. “Proprio in questa anomala pretesa di legiferare anche su «IL fine» della vita -proseguiva- capiamo che siamo nel «cambio d’epoca» di cui ci parla continuamente Papa Francesco”. “Vedete: siccome non ci sono più riferimenti valoriali condivisi sul senso della vita e «non sappiamo più chi siamo», come leggiamo nell’intervista di Ratzinger dell’ottobre 2019, allora invochiamo una legge per chiedere di conoscere il «bene». Attenzione! Ciò significa che non ci saranno leggi neutre. Come ci insegna San Tommaso, una legge indica sempre un ritenuto bene comune e orienta verso quello stesso bene l’intera società. Allora c’è un bivio nel decidere i contenuti della assumenda norma sul fine-vita: o si afferma che, se la vita non è capace di piena autodeterminazione, di autonoma e di successo, essa non vale più e si sindica come prospettiva il non-essere, cioè la morte, oppure si afferma che ogni istante è anelito di un senso infinito e dunque con un valore assoluto, perché «tutte le immagini portano scritto più in là» (Montale, 1925)”. Ma “se il bene é che «nemmeno un capello vada perduto», allora la legge deve supportate le cure palliative e chi, come i caregiver, si prende cura dell’altro, in una solidarietà umana piena di speranza e vita. Queste sono esattamente le richieste che le associazioni del nostro network hanno inviato «dai tetti» al Parlamento anche per la prossima legge di stabilità”.
Efficacissime le conclusioni del Vescovo di Verona, Mons. Domenico Pompili, che ha valorizzato il lavoro svolto, facendo presente che “IL fine vita non ha bisogno di contrapposizione ideologiche come è successo questa sera”, per poi chiedere a tutti la capacitò di “ascolto”, in tre momenti diversi e contemporanei. “Innanzitutto, dobbiamo ascoltare la posizione umana delle persone in carne e ossa che vivono queste condizioni difficili. Un secondo ascolto è quello verso la classe medica, che ha una delle sue frontiere più avanzate proprio nelle cure palliative. Una ulteriore area di ascolto siamo noi stessi: ciascuno di noi è chiamato in causa in questa esperienza e se il tema è così sentito è perché ci sta a cuore, ci stanno a cuore la nostra vita e la nostra morte!”.
E noi proveremo ad aiutarci fino in fondo per non farci distrarre da questo “ascolto”!