
Il coraggio di camminare (e sbagliare) “nel crepuscolo delle probabilità”
Intervista ad Alberto Minali
Quando si cammina “nel crepuscolo delle probabilità”, e non “nella chiara luce del giorno”, i dati possono aiutare. Orientano, stimolano, suffragano, suggeriscono una strada, ma non possono sostituirsi alla curiosità, alle intuizioni, alla determinazione nel voler realizzare un “disegno”. Al coraggio di accogliere le possibilità che la vita ti offre. E, perché no, anche di sbagliare. Cosa può fare la differenza? “La consapevolezza che il fallimento di un’esperienza non è fatale, così come il successo non è definitivo”. Ad affermarlo è una persona che ha un notevole storico di successi alle spalle. Alberto Minali, già D.G. del gruppo Generali, e A.D. di Cattolica Assicurazioni, e ora A.D. di Revo SPAC, una nuova compagnia assicurativa, fondata di recente a Verona. La sua professionalità ha ricevuto un’ulteriore attestazione di merito, con la nomina a membro del Consiglio per l’Economia della Santa Sede.
Una chiacchierata colma di input, ispirazioni ed insegnamenti. E non sono insegnamenti privi di un’evidenza “scientifica”. Ciò che suggerisce il Dottor Minali è avvalorato da episodi e vicende che lui stesso ha sperimentato nel corso della sua carriera trentennale. Dati di natura empirica, insomma. Quello che è emerso dall’intervista è il profilo di un professionista che ha scelto di lavorare nella “realtà vera” e che non si è mai sottratto al rischio di commettere errori, al punto che oggi li racconta con affetto, e come momenti cruciali per la sua crescita umana e professionale. La chiave? “la consapevolezza che nessuno può farti male fino in fondo”. Ai giovani dice: “acquisite una forza professionale, più che una carriera, questo vi rende quasi invincibili”.
Insomma, la ricetta è chiara: “Se hai un po’ di scorza e adotti un approccio probabilistico, nel senso di capacità di affidarsi, da cosa nasce cosa”. E che cose… A quanto pare, è proprio così.
Ascoltiamo un po’.
- Conseguita la laurea in Bocconi, ha intrapreso un dottorato a Yale, ma dopo sei mesi ha avvertito un dubbio interno sulla vita e sull’economia, me lo vuole declinare meglio?
Tra le varie università in cui avevo vinto la borsa di dottorato, scelsi Yale. L’economia è una scienza sociale e nasce da una costola della filosofia morale. Nell’alveo delle scienze sociali, l’economia aveva sempre beneficiato di riflessioni filosofiche, storiche, sociologiche. I grandi economisti non erano stati dei matematici, ma degli studiosi del pensiero: Marx, Smith, Ricardo, Keynes… Ma, negli anni ’70 e ’80, l’economia ha iniziato a ricomprendere anche riflessioni quantitative, provenienti dalle hard sciences. Io, dopo aver superato gli esami del primo semestre a Yale, mi resi conto, con un certo scoramento, che avrei dovuto proseguire per altri tre anni e mezzo in un ambiente in cui l’economia era stata ridotta a risoluzione di problemi matematici. In Bocconi mi ero, sì, dedicato a studi quantitativi, di statistica, di matematica, di econometria, e di economico. - Dove ha attinto il coraggio di abbandonare una strada ambiziosa e tracciata per crearne una nuova?
Vedevo Yale come una porta d’ingresso per un mondo interessante e prestigioso, quello accademico, ma capii che era spostato verso un approccio molto scollato dalla realtà. Mentre io volevo lavorare nella “realtà vera”. Compii un errore: mi dimenticai di mandare un fax alla banca che mi aveva dato la borsa di studio per dare notizia della rinuncia al dottorato. Ricordo ancora l’espressione del funzionario di banca che mi disse: “lei ci deve restituire 30 milioni di lire”. Iniziai la mia carriera, quindi, con questo grande debito, che poi mio padre riuscì ad onorare. L’altro errore che feci, più dovuto all’irruenza del carattere e della gioventù, che a volte ti fa vedere le cose in modo meno saggio: avrei potuto rimanere altri quattro mesi e ottenere il Master a Yale e sarebbe stato un grandissimo successo accademico. - Quanto ci ha messo a maturare la decisione?
Un mese. Mi ricordo che la decisione nacque quando un professore di microeconomia a lezione ci disse: “Voi andate a bere la birra alla sera al bar qui vicino? Ecco, quando voi entrate, non ve ne rendete conto, ma in realtà state risolvendo questo triplo integrale”. Io ero portato per la matematica, però non avevo mai considerato che tutto si riducesse alla risoluzione di un problema o di un’equazione.
Quindi, sono rientrato in Italia e ho lavorato un po’ con il Prof. Zamagni, in Università. Poi, nel maggio ’91, sono entrato in Generali. - Perché ha scelto proprio il mercato assicurativo come terreno dove esprimersi professionalmente?
All’Università avevo sostenuto molti esami di statistica. E mi era piaciuto questo approccio statistico alla vita. Le scelte non devono essere casuali, certo, ma bisogna tenere presente che, nel mondo reale, ci si trova davanti ad una distribuzione di eventi. Puoi anche pensare di essere tu a scegliere la tua strada, ma la strada è legata, in qualche modo, anche alle situazioni e alle opportunità. Ad un disegno per chi ci crede. Quando è stato il momento di decidere che strada professionale intraprendere, i mondi possibili erano l’accademia, oppure il settore finanziario. Il Direttore degli Affari Esteri del Gruppo Generali mi impressionò per qualità tecnica ed intellettuale. Iniziai, quindi, la carriera estera in Generali. - Durante il suo intervento ha raccontato che l’esame di calcolo delle probabilità le ha cambiato la vita, mi racconta perché?
Mi ha insegnato a non avere la certezza delle cose definitive. Il fallimento di un’esperienza non è fatale, così come il successo non è definitivo. La vita è fatta di circostanze ed opportunità, che sono tutte aperture sul mondo. Si deve avere un approccio probabilistico nel senso ampio del termine. Non c’è una strada unica. Non devi fare solo una cosa. Sto cercando di spiegarlo alle mie figlie. Quello che conta è rimanere aperto alle possibilità che la vita ti offre, avere curiosità e capacità di leggere i “segni dei tempi”, aver voglia di realizzare un disegno. - In che modo la probabilità è diventata il suo filtro e criterio di scelta?
Se io avessi scelto una strada o l’altra, avrei determinato due tipi di carriere diverse. Penso a quando in Austria, dopo un training molto impegnativo, mi proposero di restare a Vienna. La strada la devi desiderare, certo, ma devi anche lasciarti guidare dagli eventi. Bisogna fidarsi di persone di riferimento e affidarsi. Ovviamente, nella misura in cui ti apri, ti esponi ad un rischio.
La chiave è la consapevolezza che nessuno può farti male fino in fondo. Soprattutto se hai una professionalità. Su questo insisto molto con i giovani: acquisire una forza professionale, più che una carriera, ti rende quasi invincibile. - “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” è il passo della Bibbia cui è più affezionato. Che ruolo ha avuto nella sua vita la fiducia “in ciò che non si vede ma c’è”?
Dà grande sicurezza. Io ho sempre avuto la certezza di questa presenza. Una delle mie letture preferite è Sant’Anselmo d’Aosta che affronta il tema della prova ontologica dell’esistenza di Dio. C’è una bellissima frase che ogni tanto mi ripeto. Definisce Dio come “Intimior intimo meo, superior summo meo”. Più intimo di quanto io sia con me stesso, più alto della mia parte più alta. C’è tutto in questa frase. Quando hai questa consapevolezza, cosa potrà mai essere il problema contingente? Si risolve. - Quando ha compreso quale fosse il suo talento?
Non immediatamente. La scuola è un momento di confronto. Il talento, poi, matura nel tempo, con le esperienze, e se ne prende consapevolezza esponendosi a varie situazioni. È un mix tra capacità di costruirsi delle opportunità e saperle sfruttare. Quindi consiglierei ad un giovane di mettersi alla prova e di superare l’abitudine psicologica a non ammettere l’errore. Spesso nelle aziende arriva al vertice non chi non ha fatto errori, ma chi li ha meglio dissimulati. Così, però, non sei più in grado di prenderti rischi umani e imprenditoriali. Sei sempre compresso, attento e minimizzi il rischio. L’attitudine che ammiro nelle persone e che cerco nei miei collaboratori è quella di prendersi rischi nei propri ambiti di responsabilità. - Che impatti ha questa attitudine sulle imprese?
È importante liberare le persone dalla paura ancestrale dell’errore. Una volta liberate, danno il meglio. Nessun errore è fatale e ti condanna per sempre. Avevo inserito tra i valori Cattolica: “Il coraggio di fare e di sbagliare”. Se hai il coraggio di fare, ma la paura di sbagliare, per il timore del giudizio, si crea un sistema autobloccante. Le aziende in cui prevale questo approccio muoiono. Bisognerebbe liberare le persone, a partire da quando si frequenta la scuola, da blocchi psicologici che impediscono l’iniziativa, educando agli errori. Non viviamo in un mondo deterministico, è tutto molto più grigio, imprevisto, incerto. Questo lavoro sulla psicologia delle persone è più importante di quello che si pensi. Così si abituano i ragazzi anche a viverla un po’ la vita. - Mi racconta la chiamata dal Vaticano?
Stavo riguardando i compiti di chimica a mia figlia e arriva questa telefonata. Subito ho pensato ad uno scherzo. Monsignor Ferme, segretario del Consiglio per l’Economia, ha colto questo mio dubbio e mi ha rassicurato. “Il Santo Padre l’ha nominata nel Consiglio per l’Economia”. Mi chiese se accettassi questo incarico per cinque anni, e mi ha letto un testo in latino. Sono molto grato al Vescovo, che ha dato il suo benestare. Siedo nel Consiglio assieme ad altre sei donne laiche veramente brave e a sette cardinali con cui si lavora molto bene. - Come appare il Vaticano dall’interno?
Il Vaticano è il quinto stato al mondo per normativa antiterrorismo e antiriciclaggio. È più avanzato di tanti stati europei. Sotto questo pontificato è stato realizzato un forte adeguamento agli standard e alle best practices. La cosa che mi infastidisce è vedere quanto è stato fatto in Vaticano e quanto poco la stampa ne parli. - Revo è la sua sfida lavorativa principale in questo momento: come la sta affrontando?
Abbiamo racconto 220 milioni di euro capitale nel mercato finanziario. Revo è nata dall’idea di realizzare una compagnia di assicurazione che lavori sui rischi speciali che riguardano, in particolare, le soluzioni assicurative per le imprese. Mi riferisco ai rischi che riguardano i trasporti marittimi, i droni, il trasporto aereo, i satelliti, tutte le opere dell’ingegno umano, l’agricoltura, il mondo delle cauzioni per citarne solo alcuni. Si tratta di una somma di nicchie di mercato. Revo è una compagnia nuova che vorrebbe diventare in 5 anni leader di queste nicchie e un punto di riferimento tecnico nel mercato italiano. - Qual è la lezione più preziosa che ha imparato nella sua storia professionale?
Tante sono le lezioni che la vita professionale ti elargisce. La lezione più importante è aver compreso quanto sia rilevante la voglia e la determinazione di riuscire ad implementare e realizzare una nuova idea. Di idee ce ne sono tante, i capitali si possono trovare, quello che cambia è la modalità di dare esecuzione a queste idee. Fare impresa richiede impegno nel mettere in piedi una squadra che rimanga disciplinata nell’esecuzione del piano. Questo ha a che vedere con il coraggio imprenditoriale, che è la “derivata” del sapersi prendere la responsabilità. Concretezza esecutiva e determinazione. - Cosa desidera dal suo futuro professionale, Dottor Minali?
Schumpeter parla dell’imprenditore squattrinato che con un’idea rompe l’equilibrio, per poi crearne un altro più ampio. Quando vai a rompere un equilibrio, devi avere una grandissima forza. Revo è percepita da metà mercato come innovativa, dall’altra metà come “rompiscatole”. Noi vogliamo mettere a terra le cose. Per rompere l’equilibrio non serve solo forza economica, ma anche determinazione. E sono convinto che Revo non difetti né dell’una, né dell’altra.
Stefania Tessari