
Solidali con il Sudan. L'appello della Rete 10 dicembre Verona
Il 10 dicembre si è celebrata la Giornata internazionale per i Diritti Umani. È stata l’occasione per un rinnovato appello contro la politica, la cultura, l’economia di guerra. Come ha scritto papa Francesco per la giornata mondiale della pace, il Giubileo è un evento che ci spinge a ricercare la giustizia liberante di Dio su tutta la terra. Per questo dobbiamo metterci in ascolto del «grido disperato di aiuto» che, come la voce del sangue di Abele il giusto, si leva da più parti della terra (cfr Gen 4,10) e che Dio non smette mai di ascoltare. Tali ingiustizie assumono a volte l’aspetto di quelle che S. Giovanni Paolo II definì «strutture di peccato», poiché non sono dovute soltanto all’iniquità di alcuni, ma si sono per così dire consolidate e si reggono su una complicità estesa.
A partire da questo invito abbiamo aderito al manifesto e appello “Solidali con il Sudan” proposto dalla Rete 10 dicembre Verona.
L’APPELLO DELLA RETE 10 DICEMBRE: “SOLIDALI CON IL SUDAN”
Gentile signor Prefetto,
le inviamo questa lettera con la cortese richiesta di recapitarla alla presidenza del Consiglio dei ministri, il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, il ministero della Difesa
In Sudan è in corso da quasi due anni una terribile crisi umanitaria, scatenata da un violento conflitto che non sembra voler diminuire di intensità. Le ostilità sono scoppiate il 15 aprile 2023. Sul terreno si contrappongono le Forze armate sudanesi guidate dal generale Abdelfattah al-Burhan e l’influente milizia paramilitare delle Rapid Support Forces (RSF), agli ordini del generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemeti. Benché si tratti primariamente di uno scontro tra due uomini forti per il controllo del paese e delle sue risorse, il conflitto ha riaperto le faglie delle tensioni intercomunitarie che attraversano il paese e che sono in parte attribuibili al lascito del dominio coloniale e della fase post-coloniale, degenerando in un più ampio scontro su larga scala che coinvolge numerose milizie.
Le dimensioni della crisi umanitaria
Il conflitto ha determinato una crisi umanitaria con pochi precedenti. Dal 15 aprile, stando a dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati aggiornati a inizio dicembre, oltre 8,7 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case, portando a circa 12 milioni il numero complessivo di persone sfollate che vive nel paese, il più alto al mondo. Oltre 3 milioni di persone hanno lasciato il Sudan invece, per la maggioranza come richiedenti asilo e rifugiati. Più di 700mila profughi sudanesi si sono recati in Ciad e oltre 200mila in Sud Sudan, paesi che sono a loro volta alle prese con crisi umanitarie e instabilità politica. In Sud Sudan hanno poi fatto ritorno circa 660mila rifugiati.
Circa la metà dei 50 milioni di abitanti del Sudan necessita di aiuti umanitari mentre, stando alle valutazioni dell’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc) oltre 25 milioni di persone vivono una condizione di insicurezza alimentare acuta, di cui 8,5 milioni a livelli “emergenziali” e oltre 750mila a livelli “catastrofici”. Nei mesi scorsi, condizioni di carestia sono state confermate dall’Ipc nel Nord Darfur e in particolare nel campo per persone sfollate di Zamzam, dove si sono rifugiati a centinaia di migliaia. Per l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), almeno il 60% delle strutture sanitarie del paese non è più funzionante. Sebbene non esistano stime esatte delle vittime causate dal conflitto, almeno due diversi studi universitari indicano in oltre 60mila morti il bilancio della guerra finora. Fonti del governo degli Stati Uniti hanno parlato di circa 150mila vittime. La maggioranza degli analisti e degli esperti teme che qualsiasi ipotesi fatta a oggi sia conservativa.
Il Sudan deve poi fare i conti con il ciclico emergere di disturbi epidemici come il colera, che solo fra luglio e ottobre di quest’anno ha fatto registrare 28mila casi, e con le conseguenze della crisi climatica globale, come testimoniano le inondazioni che hanno recentemente colpito decine di migliaia di persone in più parti del paese.
A fronte di una situazione così complessa, per non dire tragica, persistono importanti problemi legati all’accesso umanitario. Secondo la classificazione della piattaforma indipendente Apecs, in Sudan si riscontra il più alto livello possibile di limitazione all’accesso umanitario: cinque su cinque. Negli ultimi mesi ci sono stati dei miglioramenti. È stato riaperto il fondamentale valico di frontiera col Ciad di Adre, porta d’ingresso al Darfur occidentale e al suo capoluogo Geneina, una delle regioni più martoriate dal conflitto. Nonostante questo, diverse organizzazioni umanitarie internazionali lamentano difficoltà significative nell’accesso alle popolazioni che necessitano di aiuti. Lo sforzo umanitario per il paese è inoltre sottofinanziato: dei 2,7 miliardi di dollari richiesti dalle Nazioni Unite a inizio anno, meno del 60% è stato coperto.
Nonostante questo, è importante sottolineare la capacità di parte della società civile sudanese di resistere alla violenza e al conflitto e di continuare a portare sostegno ai civili colpiti dalle ostilità. Ne è una prova il lavoro delle Emergency Response Rooms, un network di mutuo soccorso composto da giovani volontari e volontarie sudanesi che sono l’unica fonte di sostegno per ampie fette della popolazione. Un operato fondamentale che è valso a questa rete anche la candidatura al Nobel per la pace di quest’anno da parte del Peace Research Institute Oslo.
Le parti in conflitto, che possono contare su un continuo rifornimento di armi tramite vari canali internazionali, si sono macchiate di numerose violazioni dei diritti umani, fino anche a potenziali crimini di guerra e contro l’umanità. Come già avvenuto meno di 20 anni fa, in Darfur precise comunità non arabe come i masalit sono state oggetto di violenze sistematiche da parte delle Rsf e di milizie alleate che hanno le caratteristiche della pulizia etnica. Informazioni che ci sono arrivate anche grazie alle denunce di organizzazioni internazionali quali Human Rights Watch e della comunità sudanese in Italia. Secondo quanto documentato dall’Onu, nel conflitto si sta facendo ricorso alla violenza sessuale come arma di guerra con una portata «sconcertante». Come riferiscono diverse denunce di Nazioni Unite, organizzazioni internazionali e governi stranieri, nel corso del conflitto sono stati commessi numerosi crimini: è stato volutamente impedito l’accesso umanitario, colpiti in modo indiscriminato obiettivi civili come scuole e ospedali, interrotti volontariamente i servizi di base.
L’Italia e il Sudan
Apparentemente, la gravità di quanto sta avvenendo in Sudan non sfugge al governo italiano. Non più tardi dello scorso 27 novembre, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha definito «drammatica» la situazione che si sta vivendo nel paese, «una crisi di cui forse non si sta parlando a sufficienza». Intervenendo ai Med Dialogues organizzati a Roma da Ispi, la premier ha sottolineato: «Le gravissime violazioni dei diritti umani, le violenze su base etnica» che si stanno verificando nel contesto del conflitto, «complicano un quadro già estremamente precario che può generare conseguenze non solo nella regione». È anche a partire da questa consapevolezza che chiediamo quindi alle autorità italiane un maggior impegno nei consessi internazionali per mettere fine alla drammatica crisi del Sudan.
L’Italia ha deciso di mettere l’Africa al centro della sua politica estera, come testimoniato dal Piano Mattei per l’Africa presentato lo scorso gennaio. Sperando che questa iniziativa evolva in un’effettiva cooperazione paritaria col continente, è necessario sottolineare come il rafforzamento delle relazioni economiche e commerciali o la creazione di canali di approvvigionamento delle materie prime non possano esaurire la portate del nostro intervento diplomatico della regione. In Africa, continente ricchissimo e in evoluzione costante da tutti i punti di vista, permangono focolai di endemica instabilità politica e di conflitto. Scenari di violenza nei quali muoiono decine di migliaia di persone, la cui vita non può essere ignorata né tantomeno dimenticata sotto il peso delle priorità geopolitiche o di quelle che come tali vengono presentate.
La crisi sudanese non va però immaginata come una situazione isolata ma come parte di un più ampio contesto internazionale su cui intervengono una molteplicità di fattori geopolitici Soprattutto, non vanno immaginate come isolate le conseguenze di questo conflitto. A partire dagli effetti di un ritorno del Sudan come paese rifugio sicuro per gruppi appartenenti alla galassia jihadista come già avvenuto negli anni ’90 con al-Qaida. Non ci si può dire preoccupati del dramma che sta vivendo un paese infine, se non si è disposti ad accogliere le persone che da questo dramma hanno il diritto di fuggire come sancito da una serie di dichiarazioni internazionali vincolanti a cui l’Italia aderisce fin dalla loro approvazione.
Al governo italiano chiediamo quindi di:
- Adoperarsi concretamente nei consessi internazionali per la promozione di negoziati per un cessate il fuoco in Sudan e per il rispetto del diritto umanitario internazionale. A oggi i tentativi di mediare nel conflitto hanno prodotto il solo accordo di Gedda, siglato il 7 maggio 2023 con il supporto di Usa e Arabia Saudita e dalla portata e l’efficacia estremamente ridotta.
- Adoperarsi in modo specifico affinché si spingano le parti in conflitto a garantire l’accesso umanitario e si faciliti la creazione di un corridoio umanitario con il Ciad. È fondamentale che le organizzazioni umanitarie – fra le quali figurano diverse realtà italiane – possano avere accesso alle milioni di persone che in Sudan necessitano di aiuti.
- Adoperarsi concretamente per il rispetto dell’embargo sulle armi imposto dall’Unione Europea e in seno alle Nazioni Unite affinché il Consiglio di sicurezza estenda a tutto il paese il divieto imposto finora alla sola regione del Darfur. Sebbene la legge italiana già impedisca al nostro paese di vendere armi a paesi coinvolti in conflitto e per quanto non ci siano notizie di armi o sistemi militari di fabbricazione italiana attualmente in uso in Sudan – a differenza di quanto avvenuto per la Francia – esortiamo il governo italiano a monitorare i rischi di triangolazioni, sicuramente aumentati con la recente rimozione del divieto alla vendita di armi a due paesi coinvolti in Sudan: l’Arabia Saudita e soprattutto gli Emirati Arabi Uniti.
- Dare priorità al rispetto dei diritti umani nella gestione dei flussi migratori e negli accordi bilaterali che prevedono punti relativi alla loro gestione. Principio valido universalmente questo, assume una dimensione specifica anche in relazione al Sudan. Stando alle denunce di diverse organizzazioni internazionali, almeno a partire dal 2014 risorse economiche europee potrebbero essere finite nelle casse dell’Rsf nell’ambito della EU Horn of Africa Migration Initiative, più nota come Processo di Khartoum. Sebbene l’Ue abbia sempre negato questa possibilità, resta il fatto documentato che era la milizia – ora parte in conflitto – a svolgere molte delle funzioni di controllo della frontiera il cui finanziamento e il sostegno tecnico era previsto nel processo.
- Rispettare e tutelare sempre il diritto d’asilo, minato nella sua applicazione da una serie di pratiche italiane ed europee come quelle del refoulement – il respingimento verso paesi non sicuri -, per la quale l’Italia è stata già condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, il rispetto del diritto d’asilo viene messo in discussione come mai prima dal Patto su migrazione e asilo adottato dal Consiglio europeo lo scorso maggio e pronto a entrare in vigore nel 2026.
Rete 10 dicembre Verona